Art. 2087 c.c. e whistleblowing

La recente normativa in materia di whistleblowing introdotta nel nostro ordinamento con la Legge n. 179/2017 ha, come noto, modificato sia l’art. 54 bis del D.Lgs. n. 165/2001 (TUPI), sia l’art. 6 del D.Lgs. n. 231/2001, cui è stato aggiunto il comma 2 bis in materia di impiego privato.

In particolare, la tutela di colui che segnala illeciti nell’interesse dell’integrità dell’Ente per il quale lavora, ha determinato nell’impiego privato l’innesto della relativa disciplina all’interno di quella più ampia introdotta nel 2001 relativamente alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.

            Il comma 2 bis dell’art. 6, D.Lgs. n. 231/2001, così come introdotto dall’art. 2, Legge n. 179/2017, prevede che chi segnali dettagliatamente illeciti posti in essere in danno dell’integrità dell’Ente dai soggetti apicali dello stesso, fornendo circostanze precise e concordanti, goda del diritto a rimanere anonimo, con conseguente nullità di tutti quegli atti organizzativi che fossero in ipotesi adottati nei suoi confronti quale ritorsione (licenziamento, trasferimento, mutamento di mansioni, ecc.).

            Per assicurare la riservatezza del segnalante, gli Enti privatistici si devono dotare, nell’ambito delle procedure di gestione e organizzazione adottate ai sensi del D.Lgs. n. 231/2001 – per non incorrere nell’eventuale responsabilità per reati commessi dai propri vertici nell’interesse e in favore dell’Ente medesimo – di specifici canali che garantiscano l’anonimato del segnalante anche attraverso la predisposizione di appositi strumenti informatici.

            La condizione per accedere a dette tutele, per il segnalante, dunque, è quella di effettuare segnalazioni dettagliate relative a illeciti in danno all’integrità dell’Ente, basate su circostanze precise e concordanti, commessi dai soggetti di cui al comma 1 dell’art. 5, D.Lgs. n. 231/2001 cit..

            In altri termini, il segnalante deve essere un soggetto sottoposto al controllo e al coordinamento dei vertici aziendali.

            Diversamente, segnalazioni generiche o, addirittura, infondate effettuate con dolo e colpa grave, non solo possono determinare l’irrogazione di sanzioni disciplinari nei confronti del segnalante, ma non ne comportano la tutela dell’anonimato, con la conseguenza che eventuali atti organizzativi posti in essere nei suoi confronti non saranno assistiti dalla presunzione di nullità per la loro natura ritorsiva.

            Il rispetto di tali coordinate da parte dell’Ente risulta fondamentale per evitare di esporre l’impresa ad eventuali profili di responsabilità verso il segnalato ingiustamente accusato e la cui reputazione è stata, per certi versi, compromessa dalla segnalazione medesima.

            In questi casi il segnalato, ingiustamente accusato, potrebbe far valere, nei confronti del proprio datore di lavoro, il suo diritto all’integrità fisica e morale secondo quanto previsto dall’art. 2087 c.c., per avere l’impresa, magari, approntato dei canali di denuncia inidonei a filtrare segnalazioni generiche e/o comunque non pertinenti alla commissione degli illeciti di cui al D.Lgs. n. 231/2001 e dei relativi modelli di gestione e organizzazione.

            Per tale ragione le segnalazioni completamente anonime e, dunque, non di soggetto di cui si conoscono le generalità ma si protegge l’anonimato, potrebbero ancor più esporre l’impresa ai profili di responsabilità di cui all’art. 2087 cit. verso il segnalato ingiustamente, non potendo rifarsi in alcun modo nei confronti di un segnalante di cui non si conoscano le generalità.

            Del pari, anche nei confronti del segnalante potrebbe essere invocata la tutela di cui all’art. 2087 c.c. in quelle ipotesi residuali in cui, magari, dalla violazione dell’anonimato possano derivare una serie di ripercussioni che, pur non integrando degli atti organizzativi e gestionali ritorsivi, ugualmente potrebbero essere idonei a ledere l’integrità fisica e morale del soggetto.

            Si pensi, ad esempio, ad eventuali condotte mobbizzanti che, pur non rilevando come illeciti prese singolarmente, tuttavia potrebbero costituire un disegno complessivo volto ad emarginare la risorsa dalla compagine aziendale al fine di ottenerne l’estromissione volontaria.

            In conclusione, appare fondamentale la corretta predisposizione dei canali di segnalazione nell’ambito delle procedure organizzative e gestionali, proprio per evitare il più possibile che si verifichino danni al segnalante e al segnalato.

Sospensione causali contratto

La sospensione delle causali del contratto a t.d. ai tempi del COVID-19

L’art. 93 del D.L. n. 34/2020, c.d. “Decreto Rilancio”, ha previsto che i contratti a termine in essere alla data del 23 febbraio 2020 possano essere liberamente rinnovati e/o prorogati fino, e non oltre, la data del 30 agosto 2020, anche senza il ricorso alle causali introdotte con il D.L. n. 87/2018, c.d. “Decreto Dignità”, convertito con la L. n. 96/2018.

            Si tratta dell’ennesimo intervento da parte del legislatore sulla disciplina dei contratti di lavoro subordinato a t.d. che, negli ultimi decenni, ha visto mutare la propria disciplina quasi ad ogni cambiamento di Governo.

            Come noto, infatti, l’originaria disciplina dettata dalla L. n. 230/1962, successivamente integrata da vari interventi normativi nel corso degli anni ‘70 e ‘80 – basti pensare, ad esempio, all’art. 23 L. n. 56/1987 – era stata abrogata e riscritta dal D.L. n. 368/2001, promulgato per attuare la direttiva comunitaria n. 1999/70.

            Anche quest’ultimo intervento, che era stato voluto essenzialmente per eliminare o, comunque, contenere l’enorme contenzioso giudiziale che si era determinato a causa della difficile applicazione delle specifiche causali di ricorso al contratto a t.d. previste dalla L. 230/1962, nel corso degli anni aveva dimostrato di non risolvere il problema, in quanto il c.d. “causalone” da esso introdotto (per causalone si intendono le ragione tecniche, organizzative, produttive o sostitutive che dovevano giustificare l’apposizione del termine al contratto di lavoro) aveva ugualmente determinato innumerevoli problemi interpretativi, a scapito della certezza del diritto.

            È così che, dopo vari interventi correttivi, come l’inserimento del comma 01 all’art. 1 D.Lgs. n. 368/2001 ad opera del c.d. pacchetto Walfare del 2007 e successivi ulteriori integrazioni, si è arrivati prima alle modifiche della L. 92/2012 c.d. “Fornero”, e, infine, alla eliminazione completa delle causali ad opera del c.d. “Decreto Poletti” del 2014 trasfuso, poi, nella disciplina del D.Lgs. n. 81/2015, agli artt. 19 e seguenti.

             Sembrava, quindi, che l’eliminazione delle causali, sia per giustificare la apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato, sia per legittimare la somministrazione, sempre a termine, fosse un punto di arrivo non più modificabile, stante la cattiva esperienza più che cinquantennale, sull’applicazione e corretta interpretazione del sistema delle causali quale strumento per limitare gli abusi del contratto di lavoro a t.d..

            Tuttavia, come noto, con il D.L. n. 87/2018, convertito nella L. n. 96/2018, tra i vari interventi restrittivi all’utilizzo del contratto a termine e di quello di somministrazione, si è annoverata la reintroduzione di tre causali specifiche per giustificare la stipulazione di contratti a termine superiori a dodici mesi, consistenti in: “a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”.

            In altre parole, l’attuale disciplina, al netto dell’art. 93 D.L. n. 34/2020, consente la stipulazione di contratti a t.d. acausali soltanto per un termine massimo di dodici mesi, nel corso dei quali il contratto stesso può essere prorogato per non più di quattro volte.

            Eventuali stipulazioni di contratti a t.d. della durata superiore a dodici mesi, ovvero eventuali proroghe e/o rinnovi, devono essere assistiti dalla ricorrenza di almeno una della causali di cui sopra, pena la trasformazione del contratto a t.d. in contratto a tempo indeterminato.

            Il rigore e le difficoltà interpretative che hanno da subito accompagnato le nuove causali hanno, di fatto, limitato l’uso del contratto a termine per un massimo di dodici mesi, salvo la ricorrenza delle più “facili” ipotesi sostitutive.

            Il recentissimo intervento legislativo, di cui all’art. 93 D.L. citato, sembra implicitamente confermare l’estrema difficoltà di applicare in concreto le causali introdotte nel 2018, ancorché la loro sospensione temporanea, fino al 30 agosto 2020, sia stata determinata dalla necessità di far ripartire le attività produttive fermate durante il c.d. lock down.

            Tanto vero che alcuni commentatori hanno ritenuto che detta sospensione (delle causali) possa essere legittimata solo se vi sia effettivamente la ricorrenza della ragione sostanziale di riaprire e/o far ripartire l’attività produttiva dopo il fermo dovuto alla nota emergenza sanitaria.

            Se così fosse, si tratterebbe, però, dell’introduzione di una nuova causale che finirebbe per limitare la portata dell’intervento normativo di cui all’art. 93 citato che, al contrario, sembra “liberalizzare” l’uso del contratto a t.d. almeno fino al 30 agosto 2020.

            Al contrario, il limite temporale del 30 agosto 2020 di cui si è detto, peraltro confermato anche da un vademecum applicativo del Ministero del Lavoro, non sembra utile allo scopo di rilancio dell’economia e dell’occupazione sotteso al D.L. n. 34/2020, posto che sarebbe stato più logico che il suddetto termine fosse limitato alla sola stipulazione di nuovi contratti a t.d., che si sarebbe potuta fare in modalità acausale entro il 30 agosto 2020, e non già che detta data costituisse il limite massimo delle varie proroghe o rinnovi che, nel frattempo, dovessero essere disposti.

            Tra l’altro la deroga sembra riferirsi esclusivamente all’uso delle causali, ma non anche alla durata massima complessiva del contratto di lavoro a t.d. che, come noto, con l’intervento del 2018 è stata ridotta di dodici mesi rispetto ai trentasei originariamente previsti.

            In altri parole, le proroghe e/o i rinnovi non potrebbero comunque superare il limite complessivo dei ventiquattro mesi, ancorché lo stesso fosse raggiunto prima della data limite del 30 agosto 2020; di qui limitando ulteriormente la portata derogatoria del citato art. 93 D.L. 34/2020 sottesa essenzialmente e funzionalmente al rilancio delle attività produttive e dell’occupazione.

            Ne consegue che il datore di lavoro dovrà ricorrere a nuovo personale se quello già in forza raggiunga i ventiquattro mesi prima del 30 agosto 2020 e/o, comunque, che debba richiamare almeno una delle causali di cui si è detto, ove per effetto dei rinnovi e/o delle proroghe, il contratto superi il 30 agosto 2020.

Sicurezza sul lavoro

L’obbligo di sicurezza ai tempi del COVID-19

In previsione dell’avvio della c.d. fase 2, gli interrogativi in materia di sicurezza sul lavoro diventano sempre più pressanti posto che, se da una parte appare necessario riprendere le attività produttive, dall’altra si impone la tutela della salute e dell’incolumità dei lavoratori.

In tal senso non appare in dubbio che l’obbligo di sicurezza gravante su tutti i datori di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., si estenda anche ai c.d. rischi esogeni, cioè a dire esterni e non specificamente ricollegabili all’ambiente di lavoro, come affermato dalla più recente giurisprudenza in materia di fatti dolosi o colposi di terzi (come ad esempio nel caso di rapina ai danni di istituto di credito).

Come noto, infatti, l’obbligo codicistico di sicurezza ha natura contrattuale, in quanto si inserisce nel sinallagma del rapporto, integrando, come fonte eteronoma, il contenuto del contratto di lavoro al punto da giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa nell’ipotesi in cui detto obbligo non venga compiutamente assolto dal datore di lavoro, secondo il principio ad inadimplendi non est adimplendum.

Ne consegue che l’attuale emergenza sanitaria impone anche all’interno degli ambienti di lavoro l’adozione di tutte quelle misure preventive necessarie ad eliminare, e/o comunque ridurre al minimo, il rischio di contagio da COVID-19; e ciò a prescindere che tale rischio sia strettamente connesso alla natura dell’attività svolta.

Le fonti di produzione delle misure preventive si rinvengono principalmente nei vari D.P.C.M. che si sono susseguiti nel marzo 2020, con particolare riferimento al protocollo d’intesa del 14.03.2020 adottato dalle parti sociali, in ossequio all’art. 1 del D.P.C.M. del 09.03.2020, per prevenire e ridurre al minimo il rischio di contagio da COVID-19 negli ambienti di lavoro.

Detta normativa si affianca al T.U.S. (D.lgs. n. 81/2008) che impone la valutazione preventiva dei rischi e la redazione del relativo documento (DVR) al fine di approntare le misure necessarie ad eliminarli o ridurli il più possibile.

Di qui il primo interrogativo, se le aziende siano onerate o meno ad aggiornare il predetto documento, posto che alcuni ne hanno negato l’obbligatorietà, stante la natura emergenziale e temporanea delle eventuali misure da adottare per il contenimento del contagio, e per non onerare ulteriormente le aziende in un momento di particolare difficoltà.

Sembra, però, preferibile abbracciare la tesi che ne impone l’aggiornamento, in quanto ciò costituirebbe un utile strumento per dimostrare in caso di ispezioni, ovvero in caso di propagazione del virus, l’adempimento dell’obbligo di sicurezza in capo all’impresa.

Un ulteriore interrogativo è rappresentato dalla legittimità rispetto all’art. 5 S.T. Lav. dei controlli sanitari preventivi e funzionali all’ammissione al lavoro, aventi ad oggetto non solo la misurazione della temperatura corporea, ma anche gli eventuali prelievi sierologici di cui si sta molto parlando in questi ultimi giorni per verificare, con un’apprezzabile grado di attendibilità, la positività al COVID-19 e/o la presenza di eventuali anticorpi per capire se il soggetto sia entrato in contatto con il virus; il tutto per privilegiare tempi molto veloci rispetto al tradizionale tampone che, difficilmente, potrebbe essere effettuato per consentire l’ingresso al lavoro.

Anche in questo caso c’è chi auspica una espressa modifica dell’art. 5 Legge n. 300/70 citato, in quanto la normativa d’urgenza non potrebbe per sua natura costituire una deroga, sia pure temporanea, al divieto del datore di lavoro di controllare direttamente, o tramite propri ausiliari, lo stato di salute dei dipendenti.

Invero, sembra preferibile ritenere che, la situazione di emergenza – peraltro decretata dal C.d.M. fino al 31.07.2020 – come ha già legittimato l’ampia limitazione di molte garanzie costituzionali, mediante la predisposizione delle misure di distanziamento sociale, per privilegiare il diritto alla salute ex art. 32 Cost., altrettanto possa fare, legittimando la previsione di tutele e misure precauzionali derogatorie dell’art. 5 Legge n. 300/70, in quanto funzionali all’applicazione del suddetto diritto alla salute di rango costituzionale.

Infine, ci si domanda, trattandosi di un rischio esogeno all’ambiente di lavoro (ove, ovviamente non si tratti di aziende ospedaliere, ambulatori, ecc.), qualora un lavoratore dovesse denunciare l’infezione da COVID-19, come possa il datore di lavoro esserne ritenuto responsabile ai fini risarcitori, considerando, per l’appunto, che, essendo il virus presente anche e soprattutto nell’ambiente esterno al contesto lavorativo, l’infezione non sia stata determinata e/o causata da contatti esterni ed estranei alla compagine aziendare.

Di conseguenza, appare ragionevole ritenere che il rischio maggiore cui il datore possa andare in contro in caso di omessa o incompleta predisposizione delle misure volte a prevenire o limitare il contagio da COVID-19, sia quello di incorrere nelle sanzioni amministrative previste dalla decretazione d’urgenza (vedi in particolare D.L. n. 19/20 e ss.), nonché nelle eventuali sanzioni penali a fronte della configurazione delle relative fattispecie di reato, come pure quello di vedersi destinatario di un’eccezione di inadempimento da parte del dipendente, al punto da legittimarne anche la sospensione della prestazione lavorativa.

Licenziamento nel decreto Cura Italia

Il divieto di licenziare nel D.L. n. 18/20 cd. “Cura Italia”

L’art. 46 del D.L. n. 18/20, rubricato come “Sospensione delle procedure di impugnazione dei licenziamenti”, in realtà introduce un divieto generalizzato di procedere con i licenziamenti collettivi, a decorrere dalla sua entrata in vigore per una durata di 60 gg., sospendendo le procedure pendenti iniziate dopo il 23.02.2020.

Oltre ai licenziamenti collettivi, il divieto si estende anche ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggetto, ex art. 3 L. n. 604/66, per il medesimo lasso temporale.

Si tratta di una misura incisiva finalizzata a tutelare l’occupazione minacciata dalla crisi sanitaria in corso che, come noto, ha determinato non solo delle misure restrittive alla libertà di movimento delle persone, ma anche la chiusura forzata di tutta una serie di attività imprenditoriali e commerciali non ritenute essenziali.

Tale disposizione ha fatto sorgere parecchi interrogativi con riferimento alle procedure di licenziamento collettivo iniziate dopo il 23.02.2020, nelle quali era intervenuto l’accordo sindacale prima dell’entrata in vigore del decreto in esame.

Si tratta in questo caso, infatti, di capire se il raggiungimento dell’accordo sindacale che consente all’impresa di intimare i licenziamenti ai singoli destinatari, secondo quanto previsto dall’art. 4, comma 9, L. n 223/91, prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 18/20 consenta comunque all’imprenditore di procedere con i licenziamenti stessi, ancorché ciò avvenga nel periodo di interdizione di cui si è detto, dovendo considerarsi la procedura già esaurita.

Tale soluzione sembra però contrastare sia con il dettato normativo di cui all’art. 4, commi 10 e ss., L. n. 223/91 citata, che impone una serie di ulteriori adempimenti dopo la comunicazione dei licenziamenti, sia con la ratio della decretazione di urgenza volta, come noto, a tutelare il più possibile la conservazione dei posti di lavoro e la salvaguardia del reddito, tale per cui l’irrogazione dei licenziamenti in un momento successivo all’entrata in vigore del D.L. n. 18/20 renderebbe comunque la procedura ancora pendente; dovendola considerare conclusa solo dopo l’adempimento di tutti gli obblighi previsti dall’art. 4 della legge citata.

Un’ulteriore questione è sorta con riguardo a quelle procedure di licenziamento individuale iniziate ai sensi dell’art. 7, L. n. 604/66, prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 18/20, e ancora pendenti.

Come noto l’infruttuoso tentativo di conciliazione da incardinare obbligatoriamente dinanzi all’Ispettorato del Lavoro territorialmente competente fa retroagire l’efficacia del licenziamento al momento della comunicazione dell’apertura della procedura, venendo trattato detto periodo sotto il profilo economico come preavviso.

Nel silenzio della norma, che nulla dice in proposito, ci si è chiesti se la procedura resta sospesa per i 60 gg. di interdizione dei licenziamenti, o se, invece, decorsi i termini previsti dall’art. 7, L. n. 604/66, si possa procedere comunque al licenziamento, posto che l’attività degli Ispettorati sembrerebbe comunque sospesa.

In entrambi i casi vi sarebbe un danno per il lavoratore in quanto, ove si propendesse per la soluzione della sospensione sine die, il rischio sarebbe quello di perdere non solo tutto il preavviso, ma anche una quota parte delle competenze di fine rapporto ove il primo non riuscisse a coprire il prolungamento dei tempi dovuti all’emergenza sanitaria in corso.

La seconda soluzione, invece, finirebbe per consentire un licenziamento nel periodo di interdizione senza, peraltro, l’intervento della commissione di conciliazione il cui compito è quello di favorire un accordo economico, oppure una soluzione occupazionale alternativa. Di conseguenza, l’opzione interpretativa che appare più percorribile potrebbe essere quella di ritenere decaduta la procedura ex art. 7, ancorché iniziata prima del D.L. n. 18/20, con necessità di reiterarla ex novo dopo il periodo di interdizione.

Impossibilità di prestazione in caso di Coronavirus

L’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa ai tempi del Covid 19

Come noto, la situazione di emergenza sanitaria venutasi a creare con la rapida diffusione dell’infezione da virus Covid 19, ha costretto il Governo e gli Enti territoriali ad adottare misure di contenimento che hanno imposto la chiusura di tutte le attività non ritenute essenziali a fronteggiare la crisi in corso.

Le chiusure forzate, unitamente ai provvedimenti di distanziamento sociale, stanno creando il problema di gestire i lavoratori coinvolti, anche da un punto di vista economico.

In particolare una delle soluzioni che si sta facendo strada è quella di invocare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa per sospendere il pagamento delle retribuzioni.

In base agli articoli 1218 e 1256 c.c., la sospensione unilaterale del rapporto da parte del datore di lavoro è giustificata, ed esonera il medesimo datore dall’obbligazione retributiva, soltanto quando non sia imputabile a fatto dello stesso, non sia prevedibile ed evitabile e non sia riferibile a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale, ovvero a contingenti difficoltà di mercato.

La legittimità della sospensione va verificata in riferimento all’allegata situazione di temporanea impossibilità della prestazione lavorativa: solo ricorrendo il duplice profilo dell’impossibilità della prestazione lavorativa svolta dal lavoratore e dell’impossibilità di ogni altra prestazione lavorativa in mansioni equivalenti, è giustificato il rifiuto del datore di lavoro di riceverla (v. Cass. n. 15372/2004; conf. Cass. n. 14419/2019).

Tali principi si ritiene che possano essere applicati alla situazione che stanno vivendo tutte quelle aziende che, a seguito del Decreto dell’11.03.2020 e di quello annunciato tra il 21 e il 22 marzo 2020, siano state (e saranno) costrette a chiudere la loro attività in quanto ritenuta non essenziale.

Detto provvedimento, ovviamente, rende impossibile la prestazione lavorativa per fatto non imputabile al datore di lavoro, trattandosi di provvedimento dell’Autorità Governativa funzionale a contenere il contagio dell’infezione Covid 19.

È altrettanto vero, però, che con una serie di provvedimenti (v. da ultimo il D.L. n. 18/2020), accanto alla tutela preminente della salute quale diritto costituzionalmente garantito dall’art. 32 Cost., il Governo e le Istituzioni si sono poste come obiettivo anche quello di tutelare il più possibile l’economia nazionale mediante la predisposizione di una serie di tutele, quali la CIG ordinaria e altre ipotesi di sospensione del rapporto mediante la fruizione di congedi parentali, nonché di congedi ex art. 33 L. 104/1992, ecc., stabilendo, all’art. 46 del citato D.L. n. 18/2020, il divieto di licenziamenti economici sia collettivi che individuali per 60 gg. dalla sua entrata in vigore.

In altri termini, il principio ispiratore dei suddetti interventi e, dunque, della volontà espressa dal legislatore, sembrerebbe imporre una interpretazione delle norme preesistenti e di quelle di nuova emanazione nel senso di dover preservare il più possibile l’occupazione e il reddito dei lavoratori, mediante una serie di misure di sostegno che sono poste a carico dello Stato e, dunque, della collettività.

Inoltre, la prestazione lavorativa deve risultare non utilizzabile neppure in attività o mansioni equivalenti e/o da remoto con lo smart working.

In definitiva si può affermare che la decretazione d’urgenza contenente tutte le norme di sostegno all’occupazione e al reddito di cui si è detto, costituisce un impedimento a configurare una impossibilità sopravvenuta, idonea, come tale, ad esonerare il datore dal pagamento della retribuzione, ove sia applicabile, con la conseguenza che la volontaria disapplicazione della stessa comporti per il datore l’obbligo comunque di corrispondere le retribuzioni.

Sembra, dunque, che l’impossibilità sopravvenuta possa essere legittimamente invocata solo come estrema ratio, cioè a dire soltanto nell’ipotesi in cui non si possa attingere alle tutele ordinarie (fruizione di ferie e permessi) e/o straordinarie (v. artt. 19 e ss. D.L. n. 18/2020: CIG in deroga, FIS, congedi parentali ampliati, permessi ex L. 104/92 fino a 12 gg., ecc.), e sempre che permangano i divieti di circolazione funzionali ad integrare una eventuale ipotesi di impossibilità di svolgere l’attività per assenza delle persone, e/o della chiusura forzata delle attività non essenziali, in questo momento di contenimento del contagio.

Diritto ai buoni pasto in smart working

Il lavoratore “agile” ha diritto ai buoni pasto?

Quello del compenso del lavoratore agile, costituisce un tema molto dibattuto, a causa della laconicità del dettato normativo, che ne disciplina il trattamento economico.

Come noto, l’art. 20, c. 1, d.lgs. n. 81/17, stabilisce che Il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda”.

L’art. 51, d.lgs. n. 81/15 cit. si riferisce ai “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali, ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.

‘E dunque fondamentale verificare la fonte contrattuale, per stabile quale sia la natura dei buoni pasto ivi disciplinati. La giurisprudenza e la dottrina hanno ripetutamente messo in luce la connotazione retributiva ovvero compensativo-risarcitoria dell’istituto, tipicamente preordinato a «sopperire alle necessità di quei dipendenti che, in base al numero di ore di prestazione lavorativa loro consecutivamente richiesta, si troverebbero nella impossibilità di consumare il pasto allontanandosi dai locali di lavoro».

Non verrebbe quindi in rilievo, ai fini della esclusione del diritto di beneficiare del detto buono pasto, la non controllabilità del lavoro, allorché sia connotato dalle caratteristiche della flessibilità e autonomia, né assume rilevanza il numero delle ore di lavoro del dipendente che si trovi in tali condizioni ma solo l’esistenza della possibilità, in capo allo stesso, di poter organizzare liberamente la propria attività lavorativa, non essendo costretto all’osservanza di una turnazione con servizio necessariamente continuativo durante il turno e non realizzandosi quindi, in tal caso, le condizioni per l’attribuzione del buono pasto. Al riguardo, soccorre anche  la disposizione di cui al d.l. 11 luglio 1992, n. 333, art. 6 –convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359 – che al co. 3 esclude, in linea generale, la connotazione retributiva dell’indennità di mensa, in quanto servizio sociale dell’azienda predisposto nei confronti della generalità dei lavoratori, e che, al successivo co. 4, fa salva la differente qualificazione convenzionale stabilita in sede di contrattazione collettiva.

La conseguenza sarebbe che, ove la contrattazione collettiva prevedesse l’erogazione di un’indennità sostitutiva alla generalità dei lavoratori, ivi inclusi coloro che, in concreto, non utilizzano il servizio mensa, detta indennità perderebbe il suo carattere assistenziale, per assumere natura retributiva e sarebbe pienamente computabile negli istituti retributivi differiti.

In alteri termini, esclusivamente nella suddetta ipotesi, ovverosia a fronte di una previsione contrattuale che svincolasse l’indennità dall’effettiva fruibilità della mensa aziendale e dalla connessa necessità di espletare l’attività lavorativa nei locali aziendali in ossequio ad una determinata articolazione dell’orario di lavoro, si potrebbe ipotizzare l’estensione dell’indennità di mensa o del buono pasto al lavoratore agile, per la parte della prestazione lavorativa espletata al di fuori dei locali aziendali. Diversamente, non ve ne sarebbero i presupposti, proprio per le particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, così come delineate dalla legge sul lavoro agile.

Caso licenziamento collettivo

Trib. Civitavecchia, 23 febbraio 2018, n. 95 (sent.), Est. Abrusci

Licenziamento Collettivo – Delimitazione dell’area di scelta – Onere della prova – Grava sul datore di lavoro – Mancato assolvimento – Vizio procedurale in fase applicativa – Sussistenza – Illegittimità del licenziamento – Tutela risarcitoria ex art. 18, co. 7, 3^periodo – Applicabilità

Nel licenziamento collettivo, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare la legittimità della delimitazione dell’area di scelta operata in fase di applicazione dei criteri di scelta, con riferimento alla posizione del singolo lavoratore licenziato, determinandone, il mancato assolvimento, un vizio procedurale, cui conseguente il diritto del lavoratore, sulla scorta dell’art. 5, co. 3, l. 223/91, secondo periodo, alla tutela prevista dal terzo periodo, del settimo comma dell’art. 18 St. Lav. (che rinvia al quinto comma del medesimo articolo).

Licenziamento Collettivo – Delimitazione dell’area di scelta – Violazione procedurale – Sussistenza – Violazione dei criteri di scelta – Esclusione – Onere della prova – Grava sul prestatore di lavoro – Mancato assolvimento

Nel licenziamento collettivo, il riscontrato vizio nella delimitazione dell’area di scelta dei lavoratori da licenziare costituisce una violazione meramente procedurale e non una “violazione dei criteri di scelta”, determinandosi tale seconda – e più grave – eventualità – solo qualora venga accertato, con onere probatorio gravante sul prestatore,  che una corretta applicazione dei criteri avrebbe concretamente modificato l’esito del procedimento di selezione, conducendo al licenziamento di un lavoratore al posto di un altro.

Il fatto: Con ricorso ritualmente depositato la Società proponeva opposizione, ai sensi dell’art. 1, comma 51, l. n. 92/2012, avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale di Civitavecchia aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dal lavoratore, per impugnare il licenziamento comminatogli all’esito di una lunga e complessa procedura di licenziamento collettivo, dichiarando risolto il rapporto di lavoro intercorso tra le parti alla data del licenziamento e condannando la società al pagamento in favore del lavoratore di una indennità risarcitoria. La società ricorrente chiedeva al Tribunale di riformare l’ordinanza opposta, dichiarando la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore; in subordine, chiedeva che l’indennità omnicomprensiva fosse limitata alla misura minima. In via ulteriormente subordinata, domandava l’accertamento del diritto a procedere alla risoluzione del rapporto di un altro lavoratore, senza dover esperire una nuova procedura; con vittoria di spese di entrambe le fasi di giudizio. Si costituiva ritualmente il lavoratore, il quale contestava in toto le avverse pretese e ne chiedeva il rigetto, riproponendo tutte le domande contenute nel ricorso introduttivo della prima fase (ivi compresa quella di reintegra nel posto di lavoro, sia ai sensi dell’art. 18, commi 1 e/o 5, l. n. 300/70 non accolta dall’ordinanza opposta).

Il comento: La sentenza in esame, peraltro oggetto di reclamo in appello, pur conformandosi, quanto alla collocazione dell’ingiustificata delimitazione dell’area di scelta dei lavoratori da licenziare, nell’alveo dei vizi cd. procedurali (Cass. n. 25353 del 2009; Cass. n. 26376 del 2008; Cass. n. 6112/2014), gravando sul datore di lavoro la dimostrazione del fatto da cui discenderebbe la dedotta delimitazione, non appare condivisibile, ove, invece, ha ritenuto che il predetto vizio non costituisse anche un una violazione dei criteri di scelta. Nella specie, la posizione del lavoratore era stata ritenuta dall’azienda come non comparabile con quella degli altri colleghi, senza, però, che fosse fornita la prova della presunta infungibilità della posizione professionale di questi rispetto agli altri colleghi impiegati nello stesso settore. Invero, la mancata e (ingiustificata) comparazione, non può comportare alcuna prova di resistenza, in capo al lavoratore, consistente nel dimostrare il diverso esito del licenziamento, una volta correttamente ampliata la platea dei comparabili, posto che tale prova si rende necessaria solo allorquando il lavoratore licenziato debba articolare ulteriori conclusioni circa i propri titoli prioritari per la conservazione del rapporto: ciò non era necessario nel caso di specie, avendo la Società dedotto per ben due fasi di giudizio, la infungibilità della posizione lavorativa e quindi la non comparabilità con gli altri lavoratori (cfr. C. App. di Roma, 01.06.2016).

 

Licenziamento individuale

Trib. Sassari, 9 maggio 2018 (ord.), Est. Adami

Licenziamento individuale – Impugnazione –  Tutela obbligatoria -Rito “Fornero” – Applicabilità – Nullità per motivo illecito – Abuso del diritto – Insussistenza –  Giustificato motivo oggettivo – Fondatezza

 

           ‘E legittimo il licenziamento per g.m.o. che si ponga in termini di riferibilità e coerenza con la dedotta ristrutturazione aziendale, dovendosi, di contro, escludere la ricorrenza del motivo illecito, che,  in quanto unico e determinante, non può coesistere con una giusta causa o un giustificato motivo la cui ricorrenza e fondatezza siano state accertate in corso di causa.

 

Il fatto: Nel caso di specie, una Società rilevava, ex art. 2112 c.c., la gestione di un cinema, assumendo tutto il personale impiegato dal cedente, che consisteva di poche unità, tra le quali spiccava un’unica risorsa inquadrata in una posizione  apicale rispetto alle altre. La società cessionaria, dovendo affrontare degli ingenti esborsi per la ristrutturazione dell’immobile, al fine di trasformarlo una multisala, decideva dopo circa un anno e mezzo dall’acquisizione, di licenziare per giustificato motivo oggettivo la risorsa apicale – nel frattempo, peraltro, assentatasi per malattia per circa sei mesi continuativi, risultando la più costosa e la meno utile, viste le ridotte dimensioni aziendali che ben consentivano una ridistribuzione delle mansioni del licenziato tra l’Amministratore e gli  altri dipendenti rimasti in servizio. Il lavoratore impugnava il licenziamento, incardinando il rito cd. “Fornero”, ancorché risultasse applicabile la tutela obbligatoria, contando l’impresa meno di 15 dipendenti, sul presupposto che il licenziamento fosse nullo, per motivo illecito, dovuto ad “abuso del diritto”, sostanziatosi, a detta del ricorrente, in una serie di condotte volte a dequalificarlo e a emarginarlo, con conseguente applicazione dell’art. 18, commi 1 e 2, l. n. 300/70. Costituitasi ritualmente in giudizio la Società, il Tribunale, espletata la prova testimoniale, rigettava il ricorso, condannando il lavoratore alla rifusione delle spese di lite, ritenendo dimostrata la ricorrenza e la fondatezza del giustificato motivo oggettivo addotto dalla società convenuta.

Il Commento: La sentenza del Tribunale di Sassari si conforma all’oramai consolidato orientamento della Suprema Corte, a mente del quale: “in caso di licenziamento discriminatorio, la nullità opera obiettivamente in ragione del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. Nell’ipotesi di licenziamento ritorsivo, invece, non solo il recesso deve essere ingiustificato, ma è necessario che il motivo che si assume illecito sia stato anche l’unico determinante (Cass. Sez. Lav.,  9 giugno 2017, n. 14456, conf. tra le molte: Trib. Milano, 6 febbraio 2017, n. 3339).

          In particolare, il Trib. di Sassari ha correttamente ritenuto che la prova della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, raggiunta in giudizio, in termini di coerenza e riferibilità tra la seria ragione economica addotta e  e il licenziamento irrogato, escludesse di per sè la ricorrenza di un motivo illecito, che, come visto, per rendere nullo il licenziamento, deve essere il solo ad aver determinato la volontà imprenditoriale di licenziare, oltre a dover essere determinante; a nulla rilevando le allegazioni del lavoratore, peraltro tutte confutate in sede d’istruttoria, volte ad affermare che vi sarebbe stato un preciso intento di demansionarlo ed estrometterlo dalla compagine aziendale.